Dal 2021 l'età per la vecchiaia salirebbe a 67 anni e 3 mesi dunque con un ulteriore innalzamento di tre mesi mentre - si legge nel documento - nel biennio 2023-2024 l'incremento risulterebbe meno ripido rispetto a quello preventivato nel 2011 e a quanto comunicato da Giorgio Alleva, Presidente dell'Istat, nei giorni scorsi alla Camera: solo un mese e poi due mesi ogni biennio sino ad arrivare a 68 anni nel 2031.
Quello della speranza di vita è un meccanismo controverso ma antecedente alla Legge Fornero: fu introdotto, infatti, dal Governo Berlusconi con il decreto legge 78/2010 lo stesso, per intenderci, che abolì le ricongiunzioni gratuite verso l'AGO, innalzò l'età pensionabile delle donne del settore privato e introdusse le finestre mobili. L'adeguamento colpirà in particolare le lavoratrici del settore privato che già dal 1° gennaio 2018 vedranno scattare l'ultimo scalone previsto dalla Legge Fornero che aggancerà l'età pensionabile di vecchiaia a quella degli uomini: insomma nel prossimo biennio l'incremento potrebbe essere di ben un anno e cinque mesi. La tavola sottostante, elaborata da PensioniOggi.it, mette a confronto le differenze tra i due scenari demografici Istat (2011 e 2016).
Crescono anche i requisiti per il pensionamento anticipato
Se lo scenario sarà confermato a salire saranno anche i requisiti per la pensione anticipata: dal 2019 sarà così necessario ragguagliare un totale di 43 anni e 3 mesi di contributi per gli uomini (contro i 42 anni e 10 mesi attuali) e 42 anni e 3 mesi per le donne (contro i 41 anni e 10 mesi attuali). E per i precoci si passerà dagli attuali 41 anni di contributi raggiunti a fatica dopo una lunga battaglia a 41 anni e 5 mesi. In generale, comunque, lo slittamento di 5 mesi interesserà tutte le prestazioni previdenziali ed assistenziali erogate dall'Inps ancorate ad un requisito anagrafico. L'unica eccezione sono gli addetti ai lavori usuranti che da quest'anno hanno guadagnato il congelamento degli adeguamenti alla speranza di vita sino al 2026. Salvo ovviamente non si decida di intervenire legislativamente con ulteriori provvedimenti.
Il flusso migratorio inciderà sugli assegni pensionistici
Nel recente rapporto la RGS avverte anche sugli effetti del ridimensionamento del flusso migratorio sugli assegni pensionistici. Al riguardo la Ragioneria generale dello Stato spiega che "sulla base delle ipotesi demografiche e macroeconomiche" aggiornate, "il tasso di crescita del Pil reale si attesta intorno ad un valore medio-annuo dell'1,2% nell'intero periodo di previsione", che copre fino al 2070. La versione precedente del dossier della Ragioneria segnava invece una crescita media annua dell'1,5%.
La causa va cercata, secondo la Ragioneria, "nella riduzione del tasso di crescita degli occupati”, da attribuire alla diminuzione del “flusso netto di immigrati". D'altra parte, si legge nel rapporto, "le variazioni più significative hanno riguardato le ipotesi relative al flusso netto di immigrati il quale è stato rideterminato in un valore medio annuo di 154 mila unità, nell'intero periodo di previsione, a fronte delle 209 mila unità della precedente previsione, con una contrazione media del 26%.
Per la Rgs, tale contrazione risulta particolarmente accentuata nei prossimi venti anni (circa 33%) dove il flusso netto di immigrati è previsto passare da 233 mila a 155 mila unità". Per avere un termine di paragone, la Ragioneria ricorda che "negli ultimi 20 anni, "il flusso migratorio netto è risultato in media di circa 230 mila unità annue (280 mila negli ultimi 15 anni)". A livello demografico si fa poi sentire anche la revisione al ribasso del tasso di fecondità.
Documenti: Il 18° Rapporto del MEF