Pensioni, No alla risoluzione d'ufficio se il lavoratore non ha la massima anzianità contributiva

Bernardo Diaz Martedì, 14 Novembre 2017
La Corte di Cassazione ha dichiarato illegittimo il licenziamento di un lavoratore che aveva raggiunto la quota 96 entro il 2011 ma non ancora i 40 anni di contribuzione.  
La semplice maturazione del diritto alla pensione di anzianità non legittima la facoltà di risoluzione del rapporto di lavoro da parte dell'amministrazione pubblica. Lo precisa la Corte di Cassazione nella sentenza numero 24212 del 13 Ottobre 2017 in cui i giudici erano stati chiamati a valutare la legittimità dell'operato di un datore di lavoro che aveva collocato in pensione d'ufficio un proprio dipendente in occasione del raggiungimento solo del diritto a pensione.

La questione

I giudici erano stati chiamati a valutare la legittimità dell'operato di un datore di lavoro che aveva collocato in pensione d'ufficio un proprio dipendente in possesso della vecchia quota 96 entro il 31.12.2011 (prima cioè della legge Fornero) sulla base del disposto di cui all'articolo l'art. 72, comma 11, del d.l. 25 giugno 2008 n. 112, convertito in legge 6 agosto n. 133. La risoluzione era però scattata prima che questi avesse maturato la massima anzianità contributiva secondo le disposizioni vigenti prima dell'introduzione della Legge Fornero o, in alternativa, l'età massima ordinamentale per la permanenza in servizio. Comprimendo, pertanto, il suo diritto a restare sul posto di lavoro e a maturare una pensione più succulenta. Il lavoratore ha, quindi, impugnato il licenziamento ottenendo il riconoscimento dell'illegittimità del licenziamento dalle Corti territoriali. Contro tali decisioni il datore di lavoro ha però proposto ricorso per Cassazione risultando, comunque, soccombente.

I Giudici della Corte di Cassazione hanno ribadito, infatti, che il presupposto della risoluzione unilaterale del rapporto da parte delle amministrazioni pubbliche risiede nel compimento della massima anzianità contributiva o, alternativamente, nell'aver raggiunto l'età massima ordinamentale per la permanenza in servizio, di regola 65 anni. Nel caso di specie, peraltro, il concetto di massima anzianità contributiva doveva essere verificato rispetto alla normativa applicabile prima della Riforma Fornero, cioè al perfezionamento di 40 anni di contribuzione, e non quello di 42 anni ed un mese stabilito dalla Legge di Riforma, dato che il lavoratore aveva, alla data del 31.12.2011, maturato il diritto alla pensione di anzianità (con la cd. quota 96, 60 anni di età e 36 di contributi), e detta maturazione ha consolidato nei suoi confronti la disciplina previgente.

"Nel caso di specie, al contrario, è incontestato che [il datore di lavoro] abbia preteso di esercitare il diritto di recesso dal rapporto solo perché il lavoratore aveva maturato il requisito di accesso alla pensione di anzianità ai sensi della legge n. 243 del 2004, e successive modificazioni, senza attendere il compimento della "massima anzianità contributiva" né il raggiungimento dell'età limite ordinamentale" scrivono i giudici. "Nel ricorso, infatti, si fa esclusivo riferimento alla "quota '96" non alla massima anzianità contributiva che, tra l'altro, era stata espressamente esclusa dal giudice di primo grado il quale aveva ritenuto illegittimo il recesso, oltre che per le medesime considerazioni poi espresse dalla Corte territoriale sulla interpretazione del d.l. 201 del 2011, anche per la insussistenza dei requisiti richiesti dall'art. 72".

Il potere è stato, quindi, esercitato in difetto delle condizioni richieste dalla legge perché, lo si ripete, solo l'art. 72 del d.l. n. 112 del 2008 consente il recesso anticipato, ma lo subordina non alla maturazione di un qualsiasi diritto alla prestazione pensionistica bensì al raggiungimento della anzianità contributiva massima. Poiché il richiamato art. 72 è stato invocato non a ragione dalla ricorrente, il ricorso deve essere per ciò solo rigettato".

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