Buonuscita, Rischio rettifica anche dopo un anno se il provvedimento è errato

Valerio Damiani Giovedì, 02 Settembre 2021
Chiesto il giudizio di legittimità costituzionale del DPR 1032/1973 nella parte in cui concede solo un anno di tempo all'ente previdenziale per rettificare il calcolo (e recuperare quindi le somme indebitamente erogate) dell'indennità di buonuscita per errori dovuti alla pubblica amministrazione.

La Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi sul termine di un anno concesso all'INPS per rettificare le errate liquidazioni dell'indennità di buonuscita per i dipendenti civili e militari dello stato. Così ha stabilito la Corte d'Appello di Roma con l'Ordinanza del 27 Aprile 2021 con la quale ha rimesso la questione di legittimità costituzionale dell'art. 30, comma 1, lettera b), e comma 2, decreto del Presidente della Repubblica n. 1032/1973 per sospetto contrasto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione.

Indennità di buonuscita

Nel pubblico impiego, come noto, non c'è coincidenza fra soggetto obbligato a pagare il t.f.s. e datore di lavoro a differenza del settore privato in cui quest'ultimo è tenuto anche all'erogazione del trattamento di fine rapporto. Nello specifico, per quanto riguarda il settore statale (cioè i dipendenti civili e militari dello stato) a cui è corrisposta l'indennità di buonuscita, l'art. 26, co. 2 del DPR 1032/1973 prevede che l'amministrazione di appartenenza del dipendente trasmetta all'amministrazione del Fondo di previdenza (ora all'Inps) un «progetto di liquidazione» della stessa.

Errore di calcolo

L'art. 30, comma 1, lettera b), e comma 2, del citato DPR 1032/1973 prevede che, qualora vi sia stato un errore nel calcolo dell'indennità di buonuscita, il provvedimento errato è revocato, modificato o rettificato non oltre il termine di un anno dalla data di sua emanazione. Tale termine, stabilito a pena di decadenza, decorre dalla data di emanazione del provvedimento errato (e non da quello in cui l'ex amministrazione di appartenenza ha comunicato all'Inps i nuovi dati retributivi rettificati) e, pertanto, rischia di impedire all'INPS il recupero dell'eccedenza corrisposta illegittimamente per errore (anche di diritto) commesso dallo stesso ente di previdenza bensì dall'amministrazione (come tale non imputabile ad un comportamento dell'INPS).

Non è infatti, in questa circostanza invocabile la disposizione di cui all'articolo 26, co. 6 del DPR 1032/1973 che consente la modifica della determina di TFS entro 60 giorni dalla nuova comunicazione dell'amministrazione statale, posto che tale norma si riferisce a modifiche dei provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza adottati come «datore di lavoro» e che quindi incidano sul rapporto di lavoro (ad esempio una ricostruzione di carriera), dai quali derivi, come conseguenza ulteriore, una diversa quantificazione dell'indennità di buonuscita.

Decadenza a danno dell'INPS

Secondo la Corte d'Appello proprio laddove - come nel pubblico impiego - non vi sia coincidenza fra soggetto obbligato a pagare il t.f.s. e datore di lavoro, l'imposizione di un termine di decadenza a carico del primo (cioè l'ente previdenziale) per eventuali rettifiche dipese e/o disposte tardivamente dal secondo (la pubblica amministrazione) è irragionevole, in quanto pone il debitore (Inps) alla mercè dei possibili errori e/o omissioni del datare di lavoro (amministrazione statale o altre amministrazioni soggette alla disciplina di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 1032/1973), sulle quali il primo non ha alcun potere di incidenza.

Quindi la decadenza finisce per perdere il suo autentico significato di sanzione per un comportamento inerte imputabile al soggetto che ha il potere di rettificare il debito. Nella fattispecie descritta dalla norma, infatti, l'inerzia rilevante finisce per essere non quella dell'Inps, bensì quella dell'amministrazione datrice di lavoro, che comunichi con anni di ritardo la rettifica dell'originario «progetto di liquidazione».

E ciononostante la conseguenza sarebbe la decadenza che colpisce l'Inps, soggetto obbligato a pagare il t.f.s., al quale verrebbe in tal modo impedito di recuperare l'eccedenza corrisposta illegittimamente per errore, anche di diritto, dipeso da un fatto ad esso non imputabile.

Sospetta illegittimità

La Corte capitolina ritiene, pertanto, che siano violati due principi cardine della Carta Fondamentale, quello relativo al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97) in quanto tutelerebbe esclusivamente l'affidamento del beneficiario del t.f.s., senza alcuna giustificazione legata alle peculiarità del suo rapporto di pubblico impiego; e quello della parità di trattamento (art. 3).

Ciò in considerazione del fatto che per i dipendenti del settore enti locali cui il trattamento di fine servizio è liquidato nella forma dell'indennità premio di servizio (IPS) e per i dipendenti del settore privato l'eventuale eccedenza dell'importo liquidato, rispetto a quello effettivamente spettante al dipendente, può essere sempre chiesto in ripetizione secondo la disciplina dell'indebito oggettivo (art. 2033 del codice civile), sottoposto unicamente all'ordinario termine decennale di prescrizione (per l'indennità premio di servizio per i dipendenti degli enti locali, v. in tal senso la Cassazione 24 maggio 2005, n. 10915). La Corte ha di conseguenza rimesso alla Consulta la parola finale sull'articolo 30 del DPR 1032/1973.

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