Pensioni, Legittimo lo stop delle Casse alla restituzione dei contributi

Valerio Damiani Venerdì, 12 Marzo 2021
La Corte di Cassazione torna a precisare i contorni dell'autonomia statutaria delle Casse Professionali. Niente restituzione dei contributi se l'iscritto ha prodotto domanda dopo l'entrata in vigore dei regolamenti che hanno abrogato tale facoltà.  
L'iscritto ad una Cassa Professionale che non abbia presentato domanda di restituzione dei contributi prima dell'abolizione di tale facoltà non può più farlo ancorché a tale data avesse maturato tutti i requisiti normativamente previsti. Né possono farlo i suoi superstiti ove questi sia deceduto senza aver prodotto la domanda. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4566/2021 con la quale i giudici sono tornati ad affrontare la legittimità delle delibere degli enti previdenziali privatizzati.

La questione

I superstiti di un professionista iscritto ad INARCASSA avevano presentato richiesta all'Ente Previdenziale per la restituzione dei contributi versati dal defunto sulla scorta che al compimento del 65° anno di età l'assicurato pur cessando l'attività non aveva ancora maturato i requisiti per la pensione. Il professionista, tuttavia, non aveva mai presentato domanda di restituzione dei contributi ed era deceduto pochi giorni dopo la modifica dello Statuto INARCASSA (approvata il 22 luglio 2005 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 21 settembre 2005) con la quale l'Ente Previdenziale aveva abrogato tale facoltà introducendo al suo posto una «prestazione previdenziale contributiva reversibile». I superstiti avevano impugnato tale delibera ritenendola non applicabile in quanto approvata dopo che l'assicurato era stato cancellato dalla cassa e gravemente discriminatoria in quanto lesiva dei propri diritti.

La tesi della Corte

Nel solco dei precedenti orientamenti la Corte ribadisce che l'eliminazione del rimborso contributivo è una facoltà pienamente legittima per le Casse e deriva dall'esercizio della propria autonomia, che le abilita a derogare od abrogare disposizioni di legge in funzione dell'obiettivo di assicurare equilibrio di bilancio e stabilità delle rispettive gestioni. Tale potere trova fondamento nell'art. 3, comma 12, della I. n. 335 del 1995 che attribuisce agli enti previdenziali privatizzati il potere di adottare atti idonei ad incidere sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico nel rispetto del principio del pro rata. Del resto la facoltà non ha mai trovato corrispondenza nelle gestioni della previdenza pubblica obbligatoria in cui i contributi non utilizzati ai fini pensionistici vengono regolarmente incamerati dall'assicurazione in un'ottica solidaristica. Secondo la Corte questo criterio oltre ad essere ragionevole ha progressivamente ispirato anche la previdenza dei liberi professionisti con l'obiettivo di garantire, a tutti i membri della categoria, una prestazione minima. 

No al prorata

In secondo luogo la Corte precisa che il principio del pro rata non trova applicazione nell'ipotesi di restituzione dei contributi, essendo previsto solo con riguardo alle modalità di determinazione delle prestazioni previdenziali, mirando alla salvaguardia dell'anzianità contributiva maturata dal lavoratore. Pertanto tale principio non è invocabile per la tutela di un diritto non esercitato prima della sua abolizione. A questo riguardo la restituzione dei contributi non spetta automaticamente in favore del professionista che si cancelli dalla cassa o che cessi l'attività di fatto ma sorge esclusivamente previa sua domanda (l'interessato, infatti, potrebbe decidere di lasciare i contributi nella Cassa prevedendo in futuro nuova iscrizione). Di conseguenza è priva di effetto una domanda di rimborso proposta successivamente alla soppressione della facoltà di restituzione.

La circostanza, infine, che gli eredi non possano ottenere il rimborso nel caso in cui l'iscritto sia deceduto senza aver avanzato domanda di restituzione, è conseguenza della discrezionalità dell'ente previdenziale e/o del legislatore. Questo criterio, concludono i giudici, non è irragionevole e quindi censurabile dalla Cassazione.

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