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In Italia il costo dei contributi è mediamente il 37 per cento dello stipendio lordo. Il 29 per cento lo paga l'azienda, l'8 percento il lavoratore. In Germania, invece, il costo è decisamente inferiore e la distribuzione dei costi tra lavoratore e azienda è molto più paritetica.

Kamsin In Italia si offrono pensioni pubbliche tra le piu' ricche d'Europa al prezzo però di comprimere la busta paga dei lavoratori e la competitività delle aziende. E' quanto emerge da uno studio degli analisti Deloitte diffuso nei giorni scorsi dal quotidiano Repubblica. In altri termini, per chi ha avuto la possibilità di lavorare e accumulare i contributi, la pensione italiana è, tra quelle pubbliche, una delle più costose di tutta europa ma, allo stesso tempo, anche una di quelle più generose.

Una serie di esempi formulati dagli analisti di Deloitte che hanno messo a confronto le pensioni di tre generi di lavoratori (dirigente, operaio e autonomo) con identica carriera in Italia, Germania, Spagna e Regno Unito, spiegano perché. Si è scelto di prendere solo lavoratori che hanno cominciato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996, anno in cui, con la riforma Dini, è stato introdotto il sistema pensionistico contributivo, quello cioè per cui la pensione dipende da quanto si è versato. 

Immaginiamo un dirigente nato nel 1974 che ha iniziato a lavorare nel 1999, a 25 anni, dopo l'università. Si è fatto strada in una grande multinazionale con sede in Italia e nel 2014, dopo 15 anni, può vantare un contratto a tempo indeterminato e uno stipendio da 100 mila euro lordi l'anno. Dopo 45 anni di contributi, stimando  una crescita media e progressiva dello stipendio fino a 153.998 euro, nel 2044 - dopo 45 anni di contributi - dovrebbe ricevere in Italia una pensione annua lorda di circa 115 mila euro, più di tre volte rispetto a quanto prenderebbe a parità di carriera in Germania (31.614 euro), più del doppio che in Spagna (50.948 euro, il tetto massimo previsto in questo paese).

Un risultato simile lo si riscontra anche prendendo in considerazione un operaio di un'azienda italiana con la stessa anzianità lavorativa e la stessa età del dirigente ma con uno stipendio nel 2014 di 35 mila euro lordi l'anno. Immaginando anche in questo caso che nel corso della sua carriera continui ad avere la stessa crescita media della busta paga, in Italia  l'operaio dopo 45 anni arriverà a guadagnare 53.899 euro e, andando in pensione, prenderà 40.500 euro l'anno, ben più dei 15.250 euro che prenderebbe in Germania, ma meno dei 50.948 che riceverebbe in Spagna e molto, molto di più dei 6.800 che gli darebbero nel Regno Unito (dove però, probabilmente, avrebbe una pensione integrava).

Non va diversamente per un lavoratore autonomo che guadagna circa 70 mila euro lordi l'anno. Considerato un progressivo aumento di stipendio fino a 107.798 euro, dopo 45 anni di contributi in Italia prenderà 71 mila euro lordi di pensione. Anche in tal caso avrebbe un trattamento pensionistico migliore di tutti gli altri tre stati presi in considerazione.

Insomma, tra i Paesi più industrializzati d'Europa, l'Italia è l'unico paese che offre una pensione pubblica così ricca. Che però ci si paga con alti contributi mentre si lavora. In Germania, la contribuzione è decisamente più bassa, in modo da tenere più alto lo stipendio mensile, in Spagna si contribuisce ma, nelle pensioni, si cerca di spartire la ricchezza il più possibile tra tutti ponendo un tetto massimo, mentre in Inghilterra lo Stato dà solo diritto a una pensione sociale, il resto viene affidato alla previdenza complementare.

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Zedde

Il contratto a tutele crescenti cancella la procedura obbligatoria della Legge Fornero. Ma si applicherà solo nei confronti dei nuovi assunti dall'entrata in vigore del decreto.

Kamsin Per i nuovi assunti non ci sarà piu' la conciliazione obbligatoria alla direzione territoriale del lavoro. E' questa una delle principali novità che sarà introdotta con il decreto attuativo della Delega sul Jobs Act in materia di contratti a tutele crescenti. La procedura, com'è noto, fu introdotta dalla legge Fornero a luglio del 2012 per i recessi intimati nelle aziende con oltre 15 addetti, legati a motivi di carattere economico o organizzativo e che ha dato esito positivo in meno della metà dei casi.

L'entità dell'offerta non sarà rimessa alla libera scelta del datore di lavoro, ma è predeterminata dalla legge: una mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, (per i periodi di durata inferiore l'importo viene riproporzionato), in misura comunque non inferiore a due e non superiore a 18 mensilità.

Per le piccole aziende, con meno di 16 dipendenti, l'importo predeterminato della nuova conciliazione viene tuttavia dimezzato. Sarà pari quindi alla metà dell'ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non superiore alle 6 mensilità rispetto alle 18 delle aziende più grandi.

La procedura - Per attivare la procedura il datore può formulare l'offerta in qualsiasi sede abilitata dalla legge come ad esempio la DTL, le sedi sindacali e le commissioni di certificazione e soltanto quando non sia scaduto il termine di 60 giorni per impugnare in via stragiudiziale il licenziamento.

L'offerta deve essere formulata mediante consegna di un assegno circolare; il lavoratore che riceve la proposta può decidere di rifiutarla e in tal caso resta libero di impugnare in via giudiziale il licenziamento fermo restando che l'accettazione della somma comporta la decadenza dal diritto ad impugnare il licenziamento.

La conciliazione può essere attivata per qualsiasi tipologia di recesso del datore, anche per i licenziamenti disciplinari.
Le somme offerte con la procedura in parola hanno, peraltro, una disciplina molto favorevole, in quanto sono totalmente esenti da qualsiasi imposizione fiscale e contributiva e, pertanto, il loro importo netto è molto vicino a quello conseguibile all'esito di un giudizio. 

Il doppio Binario - Per tutti i dipendenti a tempo indeterminato già in organico prima dell'entrata in vigore del decreto attuativo continuerà invece ad applicarsi la procedura obbligatoria presso la DTL. Non sarà utilizzabile la (nuova) conciliazione facoltativa. Vengono cioè a determinarsi due binari paralleli con regole diverse sul perimetro delle conciliazione e sulla volontarietà dell'iter.

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Zedde

guidariformalavoro

Mercoledì 14 gennaio alle 9,30 dovrebbe iniziare La camera di consiglio della Corte costituzionale per dare o meno il via libera al Referendum sulle Pensioni.

Kamsin "Auspichiamo che la Corte Costituzionale dica sì al Referendum contro la Riforma Fornero del 2011 che ha penalizzato milioni di lavoratori e giovani precari". E' quanto afferma una nota diffusa dai Capigruppo della Lega Nord alla Camera dei Deputati con cui lancia anche l'hashtag #nonfatescherzi.

La Corte dovrebbe esprimersi la prossima settimana sull'ammissibilità del quesito referendario promosso dal partito di Matteo Salvini che intende abrogare l'articolo 24 della Dl 201/2011. "Oltre 500mila cittadini hanno espresso la volontà di abolire la Legge Fornero, una normativa che ha penalizzato l’entrata e l’uscita nel mondo del lavoro, ha allungato l’attività lavorativa di milioni di donne già impegnate nel lavoro familiare e ha creato il problema degli esodati lasciando senza stipendio né pensione centinaia di migliaia di lavoratori. Abrogarla significa ridare dignità al lavoro ed ai lavoratori e dare la speranza di un futuro migliore ai nostri giovani" affermano la nota.

Lo svolgimento del Referendum si potrebbe tenere, qualora la Corte darà parere positivo, entro la prossima primavera. Dall'abolizione dell'articolo 24 del Dl 201/2011 non ci sarà alcun vuoto normativo ricordano dalla Lega: "verrà semplicemente fatta rivivere la precedente disciplina che prevedeva la possibilità di ingresso alla pensione di anzianità con un minimo di età anagrafica, le cd. quote, e contributiva oppure, indipendentemente dall'età anagrafica, con 40 anni di contributi". Una normativa che già contemplava il lento innalzamento alla speranza di vita.

Impossibile tuttavia predire l'esito del giudizio della Consulta. Come già anticipato da PensioniOggi.it al momento le speranze circa l'ammissibilità del referendum sono piuttosto ridotte. Il quesito ha effetti rilevanti sui conti pubblici e sulla stabilità finanziaria (Monti stimò in oltre 10 miliardi l'anno i risparmi per lo stato una volta a regime) e, pertanto, pur non vertendo direttamente su una legge tributaria o di bilancio rischia di incappare, comunque, nel divieto previsto dall'articolo 75 della Costituzione.

Qualora si svolgesse il referendum si tornerebbe indietro di 4 anni. Nel 2015 secondo quanto stabiliva la vecchia normativa (si veda la tabella seguente) era possibile accedere alla pensione di anzianità con 61 anni e 3 mesi, unitamente al quorum 97,3 e 35 anni di contributi, oppure, indipendentemente dall'età anagrafica, con 40 anni di contributi. Naturalmente sarebbero virtualmente in pensione anche tutti coloro che hanno raggiunto la quota 96 (es. con 60 anni e 36 di contributi) entro il 2012. Troppo bello per essere vero!

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Zedde

Il Ministro in risposta ad una interrogazione in Commissione Lavoro si dice disponibile ad approfondire una diversificazione dei criteri di innalzamento dell'età pensionabile in base alla tipologia di lavoro.

Kamsin C'è la disponibilità dell'Inps e del Governo a valutare la possibilità di diversificare il criterio di adeguamento dell'aspettativa di vita in base alle specifiche caratteristiche dell'attività lavorativa. E' quanto ha detto ieri in Commissione Lavoro della Camera dei Deputati il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti in risposta all'interrogazione promossa da alcuni deputati del Pd. Gli interroganti hanno evidenziato come sull'aspettativa di vita sarebbe opportuno differenziare gli adeguamenti sulla base delle professioni esercitate nella vita lavorativa. Il ragionamento dei deputati è che, come emerge dagli studi demografici, un operaio ha una aspettativa di vita piu' breve rispetto a quella di un professionista e pertanto l'applicazione degli aumenti non può essere generalizzata. Attualmente, invece, il recente decreto 16 dicembre 2014 innalzerà, dal prossimo 1° gennaio 2016, i requisiti previdenziali di tutti i comparti di 4 mesi senza tener conto delle diverse aspettative di vita dei lavoratori.

Gli onorevoli chiedono, pertanto, al Governo la sospensione del decreto citato per dare corso agli approfondimenti necessari per individuare un criterio di adeguamento dell'aspettativa di vita che tenga conto anche delle mansioni svolte, delle qualifiche, della durata dell'attività lavorativa e dell'effettiva durata della pensione in essere.

Lo Studio - Gli interroganti sottolineano in particolare che, un recente studio, realizzato da Carlo Maccheroni, componente del Centro di ricerca sulle dinamiche sociali dell'università Bocconi e docente di demografia all'università di Torino, dimostra che un laureato di 35 anni oggi ha un'aspettativa di vita di 7,6 anni in più rispetto ad un coetaneo con un titolo di studio inferiore. La maggiore aspettativa di vita è leggermente diversa per le donne: una laureata di 35 anni oggi, infatti, sempre secondo lo studio, ha una prospettiva di sopravvivenza di 6,5 anni più lunga di una coetanea con titolo di studio inferiore. La differente mortalità sottintende differenze nella gestione della salute e nelle condizioni di vita, spiega il professor Maccheroni, ma le disuguaglianze non sono riconducibili solo al diverso bagaglio di conoscenze acquisite durante il percorso scolastico/formativo, che di per sé implica una differenza retributiva che influenza la vita e la salute, ma si manifestano anche nell'attitudine ad ampliare le proprie conoscenze in molti campi.

Chi ha un grado di istruzione più elevato, secondo la ricerca che ha quantificato queste differenze, ha più facilità a reperire e gestire conoscenze, che regolano positivamente i comportamenti riguardo a uno stile di vita salutare e a un più informato accesso alle cure sanitarie. Aggiunge sempre lo studio, che analizza anche sistemi di welfare: un sistema che basa il calcolo della pensione su dati medi di aspettativa di vita uguali per tutti, come dalla «riforma Dini», rischia di creare sperequazioni nel trattamento. Le statistiche dimostrano, infatti, che la vita media è aumentata tanto per gli uomini come per le donne, ma ciò che questa ricerca evidenzia è che per gli strati sociali più bassi aumenta meno che per quelli più alti. Le politiche sociali varate dai Governi negli ultimi decenni, conclude il docente universitario, non sono quindi ancora riuscite ad incidere positivamente sulla situazione.

Un recente studio dell'INSEE (struttura di ricerca francese) ha dimostrato quanto pesino le differenze sociali sulla longevità, tanto da arrivare ad accertare che l'aspettativa di vita di un dirigente, è di sei anni e sei mesi più elevata, rispetto ad un coetaneo operaio. Una precedente ricerca in Inghilterra – Galles del 2004, già verificava che l'aspettativa di vita dopo i 65 anni, per i professionisti è di circa 18 anni, mentre quella di un operaio non qualificato di circa 13 anni.

Ciò significa che coloro che hanno svolto lavori meno qualificati e hanno versato per 40 anni contributi e oltre, godono della pensione per un numero minore di anni e ciò dovrebbe essere sufficiente a supportare la motivazione che null'altro si può chiedere a coloro che svolgono lavori manuali e che hanno iniziato l'attività lavorativa dall'età di 15 anni.

Pertanto, concludono i Parlamentari interroganti, sull'aspettativa di vita sarebbe opportuno differenziare le tipologie di lavoro, classificare in modo dettagliato i lavori usuranti, rivedere anche quali lavori nella realtà portino ad una vita più breve, come dimostrano alcuni studi statistici sui macchinisti e personale viaggiante sui treni. Del resto l'applicazione delle disposizioni in materia di aspettativa di vita sta già creando situazioni gravi per i lavoratori e, in particolare, le lavoratrici esclusi dalle deroghe previste dal comma 14 dell'articolo 24 del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, proprio a causa degli incrementi dei requisiti pensionistici per l'aspettativa di vita.

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Zedde

All'esame della Commissione Lavoro del Senato i disegni di legge sul «reddito di cittadinanza», presentato dal Movimento 5 Stelle, e sul «reddito minimo», presentato da Sel, sono finalmente all'esame della commissione lavoro del Senato.

Kamsin Con l'avvio dell'anno nuovo i disegni di legge sul reddito di cittadinanza, e sul reddito minimo presentato da Sel arrivano finalmente all'esame della commissione lavoro del Senato. La proposta dei pentastellati prevede una soglia per il «reddito di cittadinanza» pari a 780 euro mensili a persona e costa 17 miliardi all'anno. Questo reddito, si legge nel disegno di legge, è stato calcolato in base all'indicatore ufficiale di povertà monetaria dell'Unione europea, pari ai 6/10 del reddito mediano equivalente familiare, quantificato per il 2014 in 9.360 euro annui. Andrà erogato sia ai cittadini italiani che agli europei residenti maggiorenni, come agli stranieri provenienti da paesi che hanno sottoscritto con l'Italia gli accordi sulla reciprocità della previdenza sociale. Per i lavoratori autonomi, l'importo è calcolato mensilmente sulla base del reddito familiare, comprensivo del reddito da lavoro autonomo«certificato» da professionisti abilitati che sottoscrivono apposita convenzione con l'Inps per l'assistenza ai beneficiari.

«Nei casi di crisi aziendale, previa chiusura della partita Iva  si legge ancora nel provvedimento si attiva per l'imprenditore un piano di ristrutturazione del debito a trent'anni e l'imprenditore diviene soggetto beneficiario del reddito». Per finanziare una misura totalmente assente in Italia anche nella forma riduttiva e condizionata del «reddito minimo»  siamo gli unici in Europa insieme alla Grecia  secondo i Cinque Stelle le risorse sarebbero reperibili dai tagli alle spese militari e alle pensioni d'oro, dal pagamento dell'Imu da parte della Chiesa cattolica e da una maggiore tassazione del gioco d'azzardo. Diversa è la proposta sul «reddito minimo» presentata da Sel dopo la campagna che ha registrato tra il 2012 e il 2013 la partecipazione di 170 associazioni. La proposta prevede, per inoccupati, disoccupati e precari, un beneficio individuale di 7.200 euro l'anno da corrispondere in importi mensili di 600 euro, rivalutati annualmente sulla base degli indici sul costo della vita dell'Istat. L'importo cresce se si hanno dei familiari a carico. Se il nucleo familiare è di due persone il coefficiente sale e il reddito minimo diventa di mille euro; tre persone 1.330 euro; quattro 1.630 euro; cinque 1.900 euro.

 Oltre al reddito minimo erogato in contanti, la proposta prevede anche, per chi ne ha diritto, un «contributo parziale o integrale per fronteggiare le spese impreviste, secondo i criteri e le modalità stabilite dal regolamento d'attuazione». Ovvero bus, libri, prestazioni sanitarie gratis o aiuti per pagare l'affitto. Il finanziamento di questa misura sarebbe a carico della fiscalità generale, attraverso la creazione di un fondo presso l'Inps. La durata del sussidio è di dodici mesi. Alla scadenza del periodo indicato il beneficiario che intenda continuare a percepire il reddito minimo garantito è tenuto a ripresentare la domanda.

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Zedde

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