Comporto, no al licenziamento se il lavoratore dimostra la malattia professionale

Franco Fontana Lunedì, 28 Settembre 2015
È illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto nel caso in cui venga riconosciuto l’infortunio. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 17837/2015.
 Ai fini del superamento del periodo di comporto contrattuale, che legittima il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, la normativa legale non distingue tra assenze per malattia ed assenze per infortunio, se tale sommatoria non sia anche espressamente esclusa dalla disciplina pattizia. E pertanto deve considerarsi legittimo il potere di licenziamento del lavoratore anche se l'assenza deriva da infortunio e non da malattia, dovendo essere trattati questi eventi allo stesso modo, semprechè l'infortunio non sia imputabile a precise omissioni del datore di lavoro. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la Sentenza numero 17837/2015.

La vicenda ha avuto inizio nel 2005 quando la Asl ha provveduto alla risoluzione del rapporto di lavoro di un medico specialista ambulatoriale per superamento del periodo di comporto come stabilito dalla contrattazione collettiva. La dipendente proponeva, pertanto, ricorso in giudizio lamentando la falsa applicazione degli articoli 37 e 19 del CCNL del comparto che rubricava separatamente i periodi di malattia e infortunio. Ed indicando che l'assenza era avvenuta a causa di infortunio sul posto di lavoro dovute a precise responsabilità dello stesso datore di lavoro.

In entrambi i giudizi di merito le Corti hanno dato ragione alla Asl ritenendo che l’assenza dal lavoro , superava il periodo cosiddetto di “comporto” di ventiquattro mesi, previsto dall’art. 19, comma 4, lett. e) del ACN 23 marzo 2005, che, nel rinviare all’art. 37, equiparava le assenze per malattia a quelle per infortunio. La ricorrente, peraltro, non aveva dimostrato che l’infermità da cui era affetta era stata causata dalla nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro e che fosse imputabile a responsabilità del datore di lavoro, che aveva omesso di prevenire o eliminare fattori di rischio o che era venuto meno all’obbligo generale di tutela dell’integrità fìsica del lavoratore previsto dall’art. 2087 cc. La lavoratrice presentava pertanto ricorso per Cassazione.

I giudici di Piazza Cavour hanno confermato le sentenze di merito ribadendo che la normativa legale non distingue tra assenze per malattia ed assenze per infortunio a meno di uno specifico e diverso accordo. "Deve aggiungersi - ricorda la Corte - che lo stesso primo comma dell’art. 37, nel disciplinare il trattamento economico dovuto al dipendente che si assenta dal servizio “per comprovata malattia o infortunio”, pone i due eventi sullo stesso piano, prevedendo un unico trattamento (l’intera retribuzione per i primi sei mesi, il 50% per i successivi tre mesi e l’assenza di retribuzione “per gli ulteriori 15 mesi”) e riconosce il diritto alla conservazione dell’incarico per la durata di ventiquattro mesi, senza distinguere tra le due ipotesi, come può desumersi dall’uso della disgiuntiva “o”. Si conferma perciò pure per tale via la volontà delle parti di equiparare, anche ai fini del calcolo del periodo di comporto, i due eventi".

La ricorrente, inoltre, non ha dimostrato che l'assenza fosse scaturita da un infortunio sul lavoro determinato da precise responsabilità del datore. "La computabilità nel periodo di comporto delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale - ricordano i giudici - non si verifica nelle ipotesi in cui l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell’ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell’attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. In tali ipotesi, infatti, l’impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui la detta prestazione è destinata (Cass., 28 marzo 2011, n. 7037). 

Già in passato, con la sentenza n. 26307/2014 la Suprema Corte di Cassazione aveva ribadito l’orientamento maggioritario in materia di rapporto tra malattia professionale e comporto, ritenendo che nel calcolo di tale periodo non rientrino i giorni di assenza derivanti da malattia professionale causata dalla violazione da parte del datore di lavoro del principio di cui all’articolo 2087 del codice civile. Ma in ogni caso, ricorda, la Corte è onere della parte provare il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l’assenza ed il carattere morbigeno delle mansioni svolte. Onere che nella sentenza di specie non è stato assolto dalla ricorrente. 

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