Pubblico impiego: incostituzionale il limite di 240mila euro annui

Martedì, 29 Luglio 2025
La Corte Costituzionale ristabilisce l’equilibrio tra contenimento della spesa e rispetto dei principi costituzionali. La norma del 2014, simbolo di austerità post-crisi, viene dichiarata illegittima.

Stop al tetto massimo agli stipendi pubblici fissato nel 2014 a 240.000 euro lordi annui. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 135 del 28 luglio ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 13, comma 1, del decreto-legge 66/2014 (convertito dalla legge 89/2014), ponendo fine a una misura che da oltre un decennio aveva inciso sulle retribuzioni dei dirigenti pubblici e, in particolare, dei magistrati di vertice.

Il tetto

L’obiettivo della norma del 2014 era chiaro: contenere la spesa pubblica, intervenendo sugli stipendi più alti nella pubblica amministrazione. Si stabiliva che il limite massimo retributivo fosse parametrato non più allo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione – come previsto dai precedenti articoli 23 e 23-bis del decreto-legge 201/2011 – ma a quello del Presidente della Repubblica, ovvero 240.000 euro lordi. Una scelta che comportò, per esempio, un taglio netto agli emolumenti del primo presidente della Cassazione, che all’epoca ammontavano a oltre 311.000 euro.

Ma quel che nacque come misura straordinaria in un contesto di crisi economico-finanziaria è finito per trasformarsi in un vincolo permanente, privo – secondo la Consulta – del necessario fondamento costituzionale.

La decisione della Corte

La Corte Costituzionale ha rilevato come la norma, a distanza di 11 anni dalla sua introduzione, abbia perso la sua legittimità temporanea. La sua permanenza nel tempo, infatti, contrasta con diversi principi fondamentali della Carta, in particolare quelli relativi all’autonomia e indipendenza della magistratura (artt. 101, 104 e 108 della Costituzione).

Ed, infatti, in un precedente scrutinio (sentenza 124/2017) la Consulta aveva promosso la misura considerandola riferibile ad una “situazione di instabilità finanziaria di eccezionale gravità, indotta da una allarmante crisi del debito sovrano italiano. Pertanto, tale misura, seppur derogatoria rispetto a molteplici precetti costituzionali, aveva una giustificazione solo se a carattere congiunturale e temporaneo, rispetto ad una situazione del tutto particolare”.

Superata la situazione contingente di forte emergenza economica la misura si è progressivamente posta in contrasto con la Costituzione una volta «palesata appieno la natura strutturale» della previsione, incorrendo in tal modo in una illegittimità costituzionale sopravvenuta, per violazione degli artt. 108, secondo comma, 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost”.

Nel comunicato diffuso dalla Consulta si sottolinea che la pronuncia “si pone in linea con i principi ai quali si ispirano plurimi ordinamenti costituzionali di altri Stati”, segnando così un allineamento anche con il quadro giuridico europeo.

La Corte di giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 25 febbraio 2025 (cause C-146/23 e C-374/23), si era già espressa in senso analogo, censurando la riduzione del trattamento retributivo dei magistrati, considerandola lesiva dell’indipendenza della magistratura, principio cardine dello Stato di diritto.

Effetti non retroattivi

Trattandosi di un’illegittimità costituzionale “sopravvenuta”, la sentenza non avrà effetti retroattivi. I suoi effetti decorreranno solo dal giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

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