Ad essere censurato, come si ricorderà, è stato l’articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n. 23/2015 sul cd. contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte in cui determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. La disposizione da ultimo richiamata ha previsto, per tutti gli assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015, l'attribuzione al lavoratore ingiustamente licenziato di un'indennità economica pari a 2 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio con una misura minima di 4 mesi ad un massimo di 24 mesi. Il congegno era rimasto intatto anche dopo le modifiche del decreto legge dignità (dl 87/2018) con cui il legislatore ha innalzato da 4 a 6 mesi l'indennizzo minimo e da 24 a 36 mesi quello massimo.
La decisione
La Corte Costituzionale ha censurato la citata disposizione sotto diversi profili. In primo luogo il passaggio che misura l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», contrasta con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse. In particolare "non è possibile prestabilire l'entità del risarcimento in base unicamente all’anzianità di servizio, perchè tratterebbe in modo uniforme tutti i lavoratori con la stessa anzianità" spiegano i giudici. Mentre "è un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato dalla casistica giurisprudenziale, che il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è dunque solo uno dei tanti".
Secondo la Corte la norma contrasta anche con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo. "Il legislatore finisce così per tradire la finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato" scrivono i giudici nelle motivazioni.
Da ciò consegue anche il venir meno della funzione dissuasiva nei confronti del datore di lavoro nel procedere al licenziamento ingiustificato. In questo senso - spiegano i giudici - la tutela economica prevista non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente. La Corte rileva, pertanto, come la fissazione di un'indennità rigida mette a rischio la tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione, valori protetti dalla Carta Fondamentale.
I criteri che devono orientare il giudice
In conclusione, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 3, co. 1 del Dlgs 23/2015 limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». E detta quali devono essere i binari entro cui il giudice di merito deve condurre l'indagine per determinare l'indennizzo spettante nei casi di licenziamento illegittimo.
In primo luogo le «mensilità», cui fa ora riferimento l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sono da intendersi relative all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, così come si evince dal d.lgs. n. 23 del 2015 nel suo complesso, con riguardo alla commisurazione dei risarcimenti. Nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio nonché degli altri criteri desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti tra cui, in particolare, numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti.
Va ribadito che la Consulta ha salvato il passaggio che reca la previsione di un limite minimo e massimo ai risarcimenti (4-24 mesi, ora 6-36 mesi). Pertanto pur potendo il giudice graduare l'intensità del risarcimento a seconda delle suddette condizioni restano fermi i limiti massimi e minimi dell'ammontare del risarcimento.