Il Governo nel tentativo di affrontare il ritardo nel pagamento della buonuscita per i dipendenti pubblici è ricorso allo schema del prestito bancario. Il DL 4/2019 ha previsto la possibilità per i dipendenti pubblici di ottenere un prestito sino a 45mila euro erogato dal settore bancario. Tuttavia la procedura è molto farraginosa, richiede un accordo con l'Abi ed il settore assicurativo, l'adesione degli istituti di credito ed il coinvolgimento dell'Inps. Se si considera che l'analoga misura varata nel 2017 per il pagamento della pensione (ape volontario) ha richiesto oltre un anno prima della possibilità di fare domanda si intuisce che è una situazione ingannevole, denunciano i sindacati. "Anche perchè per Quota 100 i lavoratori hanno dovuto fare domanda di pensione e richiedere le dimissioni con largo preavviso, 6 mesi, convinti che avrebbero percepito un anticipo del Tfs, fino a 45 mila euro".
Senza considerare che il prestito sul TFS/TFR non potrà essere fruito da tutti i dipendenti del pubblico ma solo di quei lavoratori che accedono alla pensione sulla base dei requisiti individuati dall'articolo 24 del DL 201/2011 (cioè 67 anni di età o 42 anni e 10 mesi di contributi; 41 anni e 10 mesi le donne) o con la quota 100 (62 anni e 38 di contributi) ancorchè - a seguito di un correttivo introdotto durante l'esame in Parlamento del Dl 4/2019 - siano andati in pensione con i predetti requisiti prima del 29 gennaio 2019, data di entrata in vigore del DL 4/2019. Resterebbero, dunque, esclusi dall'anticipo un'ampia schiera di lavoratori a partire dal comparto difesa e sicurezza, le lavoratrici che accedono alla pensione con l'opzione donna, i soggetti che hanno fatto salvi i requisiti ante-fornero in virtu' delle salvaguardie pensionistiche, chi ha usufruito della totalizzazione nazionale (Dlgs 42/2006). Per questa ragione la parte sindacale resta convinta che l'anticipo finanziario non risolva il problema dei tempi di liquidazione del Tfs e Tfr. Per risolvere questa ingiustizia conclude la nota Cigl, Cisl e Uil continueranno a rivendicare un intervento normativo come del resto chiesto anche dalla Corte Costituzionale che, nelle motivazioni alla sentenza numero 159/2019 depositata l'altro giorno, ha spronato il Parlamento ad una revisione della materia.