Pensioni, Illegittima la revoca delle prestazioni assistenziali ai condannati ai domiciliari

Valentino Grillo Sabato, 03 Luglio 2021
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale. È irragionevole che lo Stato valuti un soggetto meritevole di accedere a tale modalità di detenzione e lo privi dei mezzi per vivere, quando questi sono ottenibili solo dalle prestazioni assistenziali.
Ai condannati anche per i reati più gravi non possono essere revocate le prestazioni assistenziali, fondate sullo stato di bisogno, se questi stiano scontando la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere (come la detenzione domiciliare). Sebbene queste persone abbiano gravemente violato il patto di solidarietà sociale che è alla base della convivenza civile, attiene a questa stessa convivenza civile che ad essi siano comunque assicurati i mezzi necessari per vivere. È quanto ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 137, depositata ieri, con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzione di un passaggio della legge n. 92/2012 (cd. Riforma Fornero del Mercato del Lavoro).

La questione

La Corte, chiamata a pronunciarsi su iniziativa del Tribunale di Fermo, ha dichiarato in contrasto con gli articoli 3 e 38 della Costituzione il comma 61, e, in via consequenziale, il comma 58 dell’articolo 2 della legge n. 92 del 2012 con il quale il legislatore ha disposto la revoca delle prestazioni assistenziali, fondate sullo stato di bisogno, ai condannati in via definitiva per reati di mafia o terrorismo, i quali stiano scontando la pena in modalità alternativa alla detenzione. Il comma 58 prevede che con la sentenza di condanna per i reati più gravi - quelli previsti dagli articoli 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter e 422 del codice penale, nonché i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo - il giudice dispone la sanzione accessoria della revoca delle seguenti prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, di cui il condannato sia eventualmente titolare: indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili. Il comma 61 stabilisce che tale revoca, con effetto non retroattivo, è disposta dall’ente erogatore nei confronti dei soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato all’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012.

Le motivazioni

Secondo la Corte nonostante al legislatore sia consentito declinare uno statuto d’indegnità per coloro che si sono macchiati di reati di particolarità gravità esso non può porre in pericolo la stessa sopravvivenza dignitosa del condannato, privandolo del minimo vitale, in violazione dei principi costituzionali (artt. 2, 3 e 38 Cost.), su cui si fonda il diritto all’assistenza. Ad essi lo Stato deve comunque assicurare i mezzi necessari per vivere. Ciò non accade, prosegue la Corte, qualora la revoca riguardi il condannato ammesso a scontare la pena in regime alternativo al carcere, che deve quindi sopportare le spese per il proprio mantenimento, le quali, ove egli sia privo di mezzi adeguati, potrebbero essere garantite solo dalle ricordate provvidenze pubbliche.

In altri termini, concludono i giudici, il legislatore ha trattato allo stesso modo e a torto, situazioni soggettive del tutto differenti senza prevedere deroghe allorché ricorrano peculiari situazioni, legate all’età avanzata del condannato, alla presenza di precarie condizioni di salute, nonché, per particolari reati quali quelli di cui al giudizio a quo, anche alla collaborazione con la giustizia. Violando così lo stesso principio di ragionevolezza, perché l’ordinamento valuta un soggetto meritevole di accedere forme alternative di detenzione, ma lo priva poi dei mezzi per vivere, ottenibili, in virtù dello stato di bisogno, solo dalle prestazioni assistenziali.

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