L’assegno ordinario d’invalidità gode sempre, in presenza dei requisiti reddituali, della possibilità di essere integrato al trattamento minimo INPS. Non soltanto a chi, come già avviene, ha svolto attività lavorativa prima del 31 dicembre 1995 (regime retributivo o misto); ma anche a chi, finora escluso, ha lavorato soltanto dal 1° gennaio 1996 (regime contributivo). Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 94/2025 depositata ieri con la quale i giudici hanno sancito l’illegittimità di un passaggio della Riforma Dini (Legge n. 335/1995) accogliendo un ricorso della Corte di Cassazione.
Secondo il giudice delle leggi, infatti, non ha alcuna incidenza il sistema di calcolo, retributivo, misto o contributivo, sulla necessità che l’assegno ordinario di invalidità assolva quanto previsto dall’articolo 38 Cost. cioè garantire al percettore mezzi adeguati alle «esigenze di vita».
L’assegno ordinario d’invalidità
L’assegno ordinario d’invalidità è una prestazione previdenziale riconosciuta dalla legge n. 222/1984 erogata dall'Inps ai lavoratori, dipendenti del settore privato e autonomi, anche se iscritti alla gestione separata, a due condizioni: il versamento di contributi per almeno cinque anni, dei quali tre nell’ultimo quinquennio precedente alla domanda; e il riconoscimento di una “capacità di lavoro ridotta in modo permanente, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, a meno di un terzo”. La prestazione è erogata a prescindere dall’età anagrafica dell’assicurato; l’importo dell’assegno è calcolato sulla base dei contributi versati e, pertanto, non ha natura assistenziale come invece lo sono le pensioni di invalidità civile.
L’integrazione al minimo
L’integrazione al minimo, operativo soltanto sulle pensioni liquidate con il sistema retributivo o con quello misto, cioè ai lavoratori con contributi versati prima del 1° gennaio 1996, è un particolare meccanismo che garantisce che una pensione raggiunga un importo minimo (oggi, nell’anno 2025, 603,40 euro mensili), qualora il suo importo risulti inferiore. Alle pensioni liquidate con il sistema contributivo, cioè ai lavoratori con contributi versati dal 1° gennaio 1996, il meccanismo d'integrazione al minimo è vietato di principio.
Per l’assegno ordinario di invalidità il legislatore ha fissato regole speciali. L'articolo 1 comma 3 della legge 222/1984 prevede, infatti, che tale prestazione ove sia liquidata in misura inferiore al trattamento minimo della gestione corrispondente, deve essere integrata, nel limite massimo del trattamento minimo, da un importo pari a quello dell'assegno sociale.
Ciò significa che l'importo dell'integrazione deve rispettare due limiti: da un lato il valore della quota di integrazione non può essere superiore all'importo dell'assegno sociale (538,69 euro al mese nel 2025); dall'altro l'importo complessivo della pensione, comprensivo dell'integrazione, non può in ogni caso superare il trattamento minimo (603,40 euro per il 2025).
Oltre al rispetto dei predetti requisiti per avere diritto all'integrazione il titolare dell'assegno non deve possedere redditi propri o coniugali assoggettabili all'imposta sul reddito delle persone fisiche per un importo superiore rispettivamente a due o tre volte l'ammontare annuo dell'assegno sociale. Per l’anno 2025 tali valori corrispondono rispettivamente a 14.005,94€ e a 21.008,91€. In caso di coniugio c'è però una particolare agevolazione: l’integrazione spetta anche se sono superati i limiti di reddito personale purché si rispetti il limite di quelli coniugali. A differenza di quanto accade per il conseguimento dell'integrazione al minimo delle pensioni in cui bisogna rispettare entrambi i limiti.
La questione
Come detto la legge n. 335/1995 ha escluso l’integrazione al minimo per tutte le pensioni calcolate con il sistema contributivo, cioè anche dell’assegno ordinario di invalidità, giustificando il divieto con il fine di realizzare il principale obiettivo di riforma: la sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale.
Secondo la Consulta la tendenziale corrispondenza tra contribuzione versata ed ammontare del trattamento pensionistico, perno della Riforma del 1995, «perde consistenza proprio con riferimento alla tutela pensionistica per l’invalidità, collegata ad uno stato di bisogno del tutto peculiare, in cui la persona che la richiede ha perso in larga parte la capacità lavorativa».
Fin dalla sua introduzione a opera della legge n. 222/1984 sotto il regime retributivo, spiega la sentenza, l’assegno d’invalidità è stato sempre oggetto di una disciplina peculiare e più benevola, perché finalizzato a fronteggiare uno stato di bisogno meritevole di particolare cura. Per esempio è previsto un requisito contributivo ridotto, pari a cinque anni in luogo dei venti anni richiesti per il conseguimento della rendita di vecchiaia.
La specialità della prestazione si riscontra anche dalle particolari modalità di attribuzione dell’integrazione che, come detto, soggiacciono al limite del valore dell’assegno sociale e che, pertanto, potrebbero restituire un risultato inferiore a 603,4€ mensili. Nel fatto che l’integrazione non è riconosciuta in modo parziale e che non opera la cd. «cristallizzazione» cioè il mantenimento dell’assegno nella misura precedentemente goduta qualora vengano superati i limiti di reddito. Gli oneri dell’integrazione, inoltre, sono posti a carico del fondo sociale ora GIAS. Ciò significa, osserva la Corte, «che il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo di computo delle prestazioni è del tutto indifferente rispetto al finanziamento dell’integrazione al minimo dell’assegno ordinario d’invalidità, che già era prima, ed è rimasta poi, l’unica interamente sostenuta dalla fiscalità generale».
Ulteriore peculiarità dell’assegno ordinario d’invalidità è rappresentata dal fatto che di tale trattamento il lavoratore può aver bisogno anche molto prima del raggiungimento dell’età prevista per il godimento dell’assegno sociale, oggi erogato solo ai cittadini ultrasessantasettenni. E, in caso di assegno ordinario d’invalidità di importo modesto, il soggetto in età attiva potrebbe essere esposto al rischio di rimanere, anche per lungo tempo, privo di qualsiasi ulteriore supporto economico, là dove: a) non sussistano i requisiti per ricevere anche l’assegno d’invalidità civile; b) non abbia una composizione familiare oppure una situazione reddituale o personale che gli consenta di usufruire di ulteriori sostegni, come l’assegno unico e universale oppure l’assegno di inclusione; c) non abbia la possibilità di trovare altre «occupazioni confacenti alle sue attitudini», nonostante le misure previste dalla legge numero 68 del 1999, recante norme per il diritto al lavoro dei disabili.
La decisione
Per queste ragioni, la Consulta dichiara illegittimo l’articolo 1, comma 6 della legge n. 335/1995 (Riforma Dini) nella parte in cui ha assimilato l’assegno d’invalidità alle altre pensioni liquidate con il solo sistema contributivo, escludendo anche dall’integrazione al minimo.
In considerazione del fatto che una pronuncia di accoglimento avrebbe determinato, in ragione degli ordinari effetti ex tunc, un ingente e improvviso aggravio, per l’anno in corso, a carico della finanza pubblica, in gran parte connesso al recupero degli arretrati, la Corte ha deciso di far decorrere gli effetti temporali della decisione dal giorno successivo a quello di pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale.
Gli effetti
La sentenza, si ricorda, avrà effetti solo sull’assegno ordinario di invalidità liquidato a favore dei lavoratori dipendenti del settore privato o autonomi anche iscritti alla gestione separata dell’Inps con anzianità contributiva successiva al 31 dicembre 1995. Tali trattamenti, se il loro valore a calcolo è inferiore a 603,4€ al mese potranno formare oggetto di integrazione al predetto importo in presenza dei sopra citati limiti reddituali personali o coniugali. Il valore dell’integrazione non potrà eccedere il massimo di 538,69€ al mese (cioè il valore dell’assegno sociale).