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La scarsa crescita del Pil avrà effetti anche sulle pensioni. È cosa nota infatti che il blocco del Pil si ripercuote sulla rivalutazione della contribuzione versata all'Inps, quella contribuzione che sarà utile un domani a calcolare l'importo del trattamento pensionistico. Allarma infatti l'ultimo dato fornito dall'Inps riguardante i contributi versati nell'anno 2012: la rivalutazione sarà ferma ad un tasso pari allo 0,1643%. Quindi un lavoratore che abbia guadagnato nel 2012 20mila euro e versato all'Inps 6.600 euro di contributi (aliquota del 33%), 4.260 euro se commerciante o artigiano (aliquota al 21,30%) oppure 5400 euro se professionista senza cassa o co.co.pro (aliquota al 27%) per effetto della rivalutazione troverà in cassa rispettivamente solo 11, 7 e 9 euro in piu'. 

Gli effetti colpiranno principalmente coloro che hanno iniziato a lavorare dal 1° gennaio 1996 e che quindi sono ascritti al sistema di calcolo contributivo; il sistema contributivo lega il trattamento pensionistico alla quantità di contributi effettivamente versati dal lavoratore nell'arco della sua vita che costitiuscono il suo montante contributivo.

Il montante è soggetto ad una rivalutazione annuale sulla base della dinamica quinquennale del prodotto interno lordo. Ecco quindi che una scarsa crescita del Prodotto Interno Lordo dovuto alla crisi determinerà una scarsa rivalutazione e quindi i contributi accreditati presso l'Inps subiranno un incremento del tutto irrisorio. E ciò in fin dei conti comporterà una minore crescita del trattamento pensionistico.

E' fissata per il prossimo 28 febbraio la data entro la quale deve presentare domanda di pensione per il collocamento a riposo dal 1° novembre 2014 il personale docente, amministrativo e tecnico dell'Accademia delle Belle Arti, dell'Accademia Nazionale di Danza e di Arte Drammatica, dei conservatori di musica degli istituti superiori per le industrie artistiche. È utile ricordare che per fruire della finestra di novembre i lavoratori sono suddivisi in due gruppi a seconda di quando hanno maturato i requisiti per la pensione con la nuova disciplina o con la vecchia.

Requisiti raggiunti entro il 2011 - Possono scegliere di andare in pensione i lavoratori che hanno raggiunto entro l'anno 2011 i requisiti per la vecchiaia previsti dalla vecchia disciplina: 65 anni per gli uomini e 61 le donne ed almeno 20 di contributi. Oppure i vecchi requisiti per la pensione di anzianità: il perfezionamento di quota 96 con almeno 60 anni di età e 35 di contributi, oppure indipendentemente dall'età, il perfezionamento di 40 anni di contribuzione.

Requisiti raggiunti dopo il 2011 ed entro il 2014 - Possono accedere alla pensione i soggetti che maturano 66 anni e 3 mesi di età (ed almeno 20 anni di contributi) oppure 41 anni e 6 mesi di contribuzione per la pensione anticipata se donne (42 anni e 6 mesi se uomini).

Requisiti raggiunti entro il 31 dicembre 2013 -  Disponibile solo per le donne che optano per il calcolo della pensione con il sistema totalmente contributivo. Le lavoratrici in questione possono accedere alla pensione dal 1° novembre 2014 a condizione di aver raggiunto 57 anni e 3 mesi di età ed almeno 35 di contributi entro il 31.12.2013.

 La lettera aperta di un anonimo esodato al neo Premier, Matteo Renzi, denuncia la propria assurda situazione e la necessità di ulteriori correttivi alle norme sino ad oggi approvate. 

Egr. Sig. Primo Ministro, Le invio questa lettera volendo presentarLe la mia situazione, condivisa peraltro da molte decine di migliaia di lavoratori dipendenti ancora alle prese con le dram­matiche conseguenze della riforma delle pensioni: l'argomento non è nuovo, ma non per questo meno d'attualità. Mi scuso ma, per i motivi che sto per esporLe, la mia lettera non può essere firmata, non per mia volontà.

Due anni fa un altro esodato, Pietro Lando, scrisse all'allora ministro Fornero pregan­dola: "di non farmi continuare a vivere con questa infinita amarezza del sentirmi raggi­rato e derubato dal mio Governo, dal mio Paese", per i 57.000 euro di contributi pagati inutilmente per il riscatto di laurea.

La mia situazione è ancora più drammatica e beffarda: anch'io ho pagato una cifra superiore ai 50.000 euro per il riscatto, ma a tutt'oggi non ho alcuna sicurezza di avere la mia pensione, come avrebbe dovuto essere, nel 2015, ma, (anzi!) ieri mi ha comunicato il febbraio 2020 come data probabile per riscuoterla, finalmente.

Per il solo fatto di aver inoltrato domanda di essere riconosciuto come esodato (si badi bene chiesto, non già riconosciuto tale) mi è fatto divieto di procurarmi anche un solo euro con un qualsivoglia lavoro (!) pena la perdita di ogni diritto, mentre se fossi titolare di pensione potrei tranquillamente guadagnare, pagando ovviamente le tasse. Non è possibile, naturalmente, che io possa sopravvivere dignitosamente sei anni senza pensione né la possibilità di avere un onesto, minimo introito. Altri ex colleghi, nella stessa situazione, lavorano facendo fatturare la moglie o i figli, ma io non ho questa possibilità; così l'azienda per cui lavoro fattura le mie provvigioni al mio superiore gerarchico che poi mi passa, in nero, il netto. Così invece di pagare il 23% di tasse ne pago, data la sua superiore aliquo­ta, il 60%! Non mi si può certo definire un evasore fiscale, ma essendo un lavoratore "in nero" non posso neppure firmare questo mio appello.

Quindi, grazie alla riforma Fornero, il governo non solo mi ha derubato di 50.000 euro per farmi comprare qualcosa (la pensione di anzianità) che poi non mi vuole più dare, ma mi ha tolto perfino la dignità di lavoratore onesto costringendomi a lavora­re di nascosto: alla fine io sono il fuorilegge e non chi ha fatto quel disastro di riforma. Non riesco a trovare le parole per esprime­re l'infinita amarezza per questa situazione che mi obbliga a scriveLe senza poter mettere in calce la mia firma, senza poter mostrarLe il mio volto! Oltre che derubato, il governo mi fa anche sentire truffaldino. Spero che il governo che Lei si appresta a guidare possa finalmente risolvere questa situazione, che non è certo unica dato che, come riportava la stampa la scorsa settima­na, solo il 20% degli esodati ha finito il proprio calvario.

Con osservanza e speranza,

Il Jobs Act prevede l'introduzione del contratto unico per favorire l'assunzione dei giovani fino a 35 anni.

Nei prossimi mesi potremmo assistere ad una nuova rimodulazione del mercato del lavoro, l'ennesima in questi anni.  Secondo quanto previsto nel "Jobs Act" il governo Renzi varerà una mini riforma per agevolare le imprese ad assumere attraverso l'introduzione del cosiddetto contratto unico. Che in pratica è l'equivalente di un contratto di inserimento a tutele crescenti. E a tempo indeterminato, è questo l'elemento di novità.

Le tutele crescenti significano che in caso di licenziamento del lavoratore, in una prima fase verrano sterilizzati gli effetti dell'articolo 18, sostituendoli con indennità proporzionale al periodo lavorato. Il datore di lavoro sarà pertanto libero di licenziare per un periodo di tempo limitato, un periodo di sperimentazione. L'obbligo di reintegra - la cd. tutela reale - scatterà solo per il licenziamento discriminatorio. Superata la prima fase di applicazione del contratto unico, le regole ordinarie dell'articolo 18 vengono nuovamente ripristinate.

Ancora non chiaro invece il campo di applicazione del nuovo contratto unico. Secondo una prima ipotesi il contratto dovrà essere limitato solo al primo contratto ricomprendendo comunque i disoccupati di lunga durata. In alternativa il contratto potrebbe essere applicato senza vincoli a tutti giovani fino a 35 anni oppure ancora a tutti i rapporti di lavoro per facilitare ulteriormente l'accesso al lavoro.

Il programma di Renzi prevede anche una sforbiciata ad quelle forme di lavoro flessibile introdotte con la riforma Biagi nel 2001: in particolare l'abrogazione del lavoro a chiamata e del lavoro ripartito.

Secondo il Ministro della Pubblica Amministrazione e della Semplificazione, Marianna Madia, l'inefficienza delle Pubbliche Amministrazioni dovrà essere risolta attraverso piu' mobilità per i dipendenti pubblici. Peccato che le norme esistono già.

Il ministro Marianna Madia, fresca di nomina, ha dichiarato di voler accelerare sulla mobilità degli incarichi dirigenziali all'interno delle pubbliche amministrazioni. L'idea di base è quella di eliminare la figura del dirigente a tempo indeterminato nel settore pubblico: "un dipendente pubblico è a tempo indeterminato se vince un concorso. Il dirigente no. Stop allo strapotere delle burocrazie ministeriali", si legge nella bozza del cd. Jobs Act promosso dal nuovo esecutivo.

In realtà buona parte degli incarichi pubblici di livello dirigenziale già è a tempo determinato così come già ci sono diverse forme di mobilità per i dirigenti. E con le ultime riforme è anche passato il sistema di valutazione in base al merito richiesto oggi a gran voce dalla Madia e da Renzi. La mobilità nella pubblica amministrazione è infatti già pienamente regolata dal cd. "decreto Brunetta" e dalle sue svariate modifiche (contenute nel Dl 138/2010, nel Dl 78/2011, nella spending review del Dl 95/2012 e nel recente Dl 102/2013). Semmai dunque quello che dovrebbe fare Renzi è dare un impulso politico attraverso un confronto nuovo e aperto con il sindacato che tradizionalmente si è sempre opposto all'introduzione delle nuove regole. Insomma il punto vero è che queste norme non sono state mai applicate per interessi trasversali che tutelano la dirigenza del pubblico impiego.

La proposta di Renzi - Matteo Renzi vorrebbe creare un albo unico nazionale riservato ai dipendenti dirigenziali pubblici con un incarico massimo pari a 5 anni. Allo scadere del termine dovrà scattare la mobilità con la riassegnazione della risorsa all'interno della stessa o di un'altra amministrazione. Verrebbe inoltre introdotto un tetto massimo di 10 anni di permanenza nella stessa amministrazione. L'obiettivo è quello di rendere le amministrazioni pubbliche più produttive e più efficienti per favorire una ristrutturazione dello Stato. Produttività che dovrebbe essere raggiunta attraverso una revisione degli incarichi apicali, ricambio generazionale e la cultura dei risultati.

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